Da qualche anno, anche in Italia si sta parlando tanto di Agenda Digitale, ma nonostante la grande attenzione mediatica e la “dichiarata volontà politica”, è stato fatto ancora troppo poco per la sua effettiva attuazione. Dal 2012 ad oggi il Governo ha adottato solo 18 dei 53 provvedimenti attuativi, tra regolamenti e regole tecniche, previsti per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Digitale, e su alcuni di questi si sono accumulati oltre 600 giorni di ritardo. Le aree che hanno particolare bisogno di una decisa accelerazione sono sanità digitale (6 azioni in ritardo su 7 pianificate), giustizia digitale (4 azioni in ritardo su 4), Smart Cities (4 azioni in ritardo su 4), anagrafe, identità e domicilio (4 azioni in ritardo su 5). Le cause di questo ritardo? Dalla scarsa qualità della normazione nazionale alla frammentazione delle competenze tra diversi Ministeri e autorità in sede di attuazione, dall’eccessivo numero di provvedimenti attuativi all’assenza di un monitoraggio periodico. Nel resto d’Europa questi ostacoli non ci sono e infatti sono state già attuate 55 delle 127 azioni pianificate da qui al 2020 per favorire la digitalizzazione dei singoli Paesi e solamente 4 azioni appaiono in ritardo. E’ il quadro che emerge dalla ricerca presentata qualche giorno fa dall’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, secondo cui l’Italia era e resta agli ultimi posti in Europa sui maggiori indicatori relativi alla digitalizzazione, con un divario addirittura crescente. Secondo la Digital Agenda Scoreboard, strumento che misura lo stato di digitalizzazione dei diversi Paesi europei, il nostro Paese sconta ancora un pesante gap rispetto alla media UE, in particolare su sviluppo di e-commerce e utilizzo di Internet (-19% rispetto alla Svezia, prima in classifica), e-government (-17%) e disponibilità di servizi Internet (-16%).
Questo ritardo ha un pesante impatto sulla competitività della nostra economia: i Paesi con migliori performance nella Digital Agenda Scoreboard sono anche i primi nella classifica Doing Business della Banca Mondiale, che misura la capacità di fare impresa. Mettendo in correlazione le singole aree della Digital Agenda Scoreboard e il posizionamento sulla classifica Doing Business, emerge chiaramente che le aree più legate alla crescita di competitività sono: e-government, utilizzo di Internet, competenze digitali del Paese e e-commerce. Ad esclusione delle competenze digitali, sono tutte aree su cui l’Italia registra pesanti gap da colmare nei confronti della media europea. Esiste, quindi, un “fattore ICT” per la competitività, su cui l’Italia è indietro da tempo: come dimostra uno studio realizzato dall’Osservatorio insieme a Confindustria Digitale, dal 1994 la crisi di produttività è dovuta in buona parte alla riduzione degli investimenti in ICT (Information and Communication Technology) sul totale rispetto agli altri Paesi. Dal 1994 al 2012 il PIL italiano per occupato ha perso il 15% rispetto a Francia e Germania, il 25% rispetto al Regno Unito e il 30% rispetto agli Stati Uniti. Su questo risultato ha influito la pesante riduzione degli investimenti in ICT, passati da un valore sostanzialmente confrontabile alla quota sostenuta da Svizzera e Germania agli inizi degli anni ’90 (il 12% del totale degli investimenti lordi in impieghi fissi non residenziali), fino a uno dei peggiori posizionamenti di tutta Europa (11,1% nel 2013). “Lo spread digitale tra la nostra e le altre economie europee ha raggiunto ormai i 25 mld di euro l’anno
ha sottolineato Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale Si tratta di mancati investimenti in innovazione che ancorano l’economia italiana ad assetti e processi obsoleti. Azzerare lo spread in innovazione è un obiettivo che va assunto al rango di urgenza nelle strategie del Governo, delle istituzioni, delle imprese e trattato con gli stessi livelli di  attenzione e preoccupazione con cui si è affrontato lo spread dei titoli di Stato. Occorre una mobilitazione complessiva che interagisca su diversi piani: quello della PA, delle PMI, delle risorse e delle regole. Occorre creare un ambiente  normativo  incentivante  gli  investimenti, con particolare attenzione allo sviluppo delle infrastrutture di TLC, alla digitalizzazione delle PMI e alla realizzazione  di  partenariati  pubblico-privati  per  il co-finanziamento dei grandi progetti di messa in efficienza e razionalizzazione della PA e creazione dei nuovi servizi online”.
Nei prossimi 7 anni sono disponibili 1,7 miliardi di euro ogni anno per finanziare l’Agenda Digitale, sommando i contributi dei fondi a gestione diretta e indiretta. Risorse importanti, ma non sufficienti a completare la rivoluzione digitale. Anche perché manca ancora un piano chiaro e organico delle azioni da realizzare, una definizione precisa degli obiettivi, una chiarezza sugli interlocutori. Il primo nodo da sciogliere è quello della “governance” che risulta confusa e frammentata, per cui è difficile rendere coerenti e attuabili decisioni prese a diversi livelli. È possibile porre rimedio all’attuale situazione di stallo in primo luogo ricorrendo a un monitoraggio permanente dell’impatto delle misure legislative e dei relativi decreti attuativi, in modo da poter predisporre tempestivamente gli opportuni interventi correttivi.
L’Osservatorio Agenda Digitale ha individuato una roadmap che descrive percorsi di attuazione nel lungo periodo in 5 ambiti prioritari scelti in collaborazione con il Ministero per la Semplificazione e per la PA: fatturazione elettronica, identità digitale, pagamenti elettronici, sanità digitale e giustizia digitale. L’Osservatorio propone la creazione di un “Forum sull’Agenda Digitale”: un luogo inclusivo, duraturo, indipendente, apartitico, riconosciuto dalle istituzioni e dal mondo politico in cui sia possibile diffondere conoscenza e permettere la partecipazione dei diversi soggetti.


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