Europa. Ricorsi collettivi dei consumatori: lavori in corso a livello UE.
a cura di Alessandra Fratini - Avvocato a Bruxelles

Tra le iniziative annunciate dalla Commissione europea nel programma di lavoro per il 2012 figura la definizione di un quadro europeo sui ricorsi collettivi, ovvero quei meccanismi volti a far cessare o prevenire pratiche commerciali illegali di cui siano vittime un gran numero di denuncianti, o ad ottenere il risarcimento del danno provocato da tali pratiche.

L’iniziativa, attesa per la fine del 2012, costituirà il punto di approdo di una lunga ed intensa riflessione in merito all’opportunità di introdurre a livello europeo un sistema di azione collettiva a tutela dei consumatori, che ha preso avvio con la “Strategia per la politica dei consumatori dell’UE 2007-2013”, presentata dalla Commissione nel 2007, ed è poi proseguita con il Libro Verde sui “mezzi di ricorso collettivo” e la consultazione pubblica orizzontale “Verso un approccio europeo coerente in materia di ricorsi collettivi”, lanciata nel febbraio 2011.

Il processo di espansione ed integrazione dei mercati di consumo a dimensione transfrontaliera ha invero messo in luce l’urgenza di elaborare un approccio ai mezzi di ricorso collettivi coerente a livello europeo che, superando le disomogeneità nazionali, garantisca ai consumatori, vittime di una stessa pratica commerciale illecita, uno strumento efficace capace di assicurare un risarcimento effettivo del danno subito e rafforzare così la fiducia dei consumatori nel mercato dell’UE.

I costi elevati e le procedure spesso lunghe e farraginose di un’azione giudiziaria individuale rendono infatti quest’ultima una soluzione poco attraente agli occhi del consumatore, specie qualora la perdita da questi subita sia d’importo limitato rispetto ai costi legati ad un contenzioso. D’altra parte, le disomogeneità tra i meccanismi giudiziari di ricorso collettivo approntati dai diversi Stati membri rendono questi poco fruibili in caso di lesioni transfrontaliere dei diritti dei consumatori.

Di qui l’importanza di definire, a livello europeo, uno strumento unico che assicuri ai consumatori europei un accesso uniforme alla giustizia ed un effettivo ristoro dei danni patiti. Sensibile a tale esigenza, la Commissione ha avviato nel febbraio 2011 una consultazione pubblica orizzontale intesa ad individuare la forma giuridica più appropriata per tale strumento sì da renderlo realmente efficace. A tal fine, il documento oggetto di consultazione invitava tutte le parti interessate a selezionare i principi comuni fondamentali sui quali costruire il sistema di ricorso collettivo, valutando l’importanza della sensibilizzazione e dell’informazione dei consumatori, il ruolo chiave che gli organismi rappresentativi sono chiamati a svolgere, specie nell’ambito di controversie a carattere transfrontaliero, nonché le garanzie necessarie a scongiurare distorsioni e abusi, tipici della class action statunitense.

Gli spunti forniti dai numerosi contributi inviati in risposta alla consultazione (300 provenienti da stakeholder “istituzionali” e 20.000 da cittadini), oggi al vaglio della Commissione, certamente confluiranno nella proposta che sarà da questa elaborata entro la fine del 2012. Ne ha dato conferma la Commissaria alla giustizia Viviane Reding, in un intervento all’audizione pubblica sul tema “A horizontal instrument for collective redress in Europe”, promossa dalla commissione Affari Giuridici del Parlamento europeo lo scorso 12 luglio. In tale occasione, la Commissaria ha annunciato la presentazione di una comunicazione nella quale saranno individuati i principi comuni che informeranno la nuova disciplina europea sui ricorsi collettivi, assicurando che la comunicazione terrà debitamente conto non solo dei numerosi contributi alla consultazione pubblica, ma altresì della posizione espressa dal Parlamento europeo nella risoluzione del 2 febbraio scorso.

Il Parlamento, infatti, raccogliendo l’invito lanciato dalla Commissione con la consultazione, aveva avviato nel 2011 i lavori per una riflessione in tema di ricorsi collettivi, sfociata in una risoluzione non legislativa intesa a fornire gli spunti che dovrebbero guidare la Commissione nell’elaborazione di uno strumento europeo in materia. La risoluzione suggerisce alla Commissione di elaborare un sistema di ricorsi collettivo:1) basato sul principio dell’opt-in,in base al quale le vittime di una violazione partecipano al procedimento solo previa manifestazione espressa del loro consenso; 2) preposto alla tutela di un gruppo chiaramente identificato prima dell’avvio della causa; e 3) volto ad ottenere il ristoro del solo danno materiale.

La possibilità che la comunicazione annunciata da Viviane Reding chiuda il dibattito sul tema dei ricorsi collettivi è tuttavia solo uno dei possibili scenari delineati dalla Commissaria. La Reding non ha infatti escluso che alla comunicazione possa far seguito un set di raccomandazioni formulate a supporto delle misure ed azioni dei singoli Stati membri dell’UE, ovvero un’iniziativa di tipo orizzontale dalla forma non meglio precisata. Che possa trattarsi di una direttiva? Si vedrà!

Molti dei partecipanti alla consultazione pubblica si sono invero espressi in favore dell’introduzione di uno strumento giuridicamente vincolante ed una proposta di direttiva è stata presentata dalla Commissione con riguardo ai sistemi alternativi di risoluzione delle controversie (ADR), misure aventi una funzione strettamente complementare ai ricorsi collettivi. La presentazione di uno strumento analogo anche per questi ultimi non sarebbe dunque un’ipotesi troppo peregrina. In ogni caso, quale che sia l’opzione per la quale la Commissione propenderà, certo è – sempre stando alle assicurazioni della Commissaria Reding - che ogni iniziativa rispetterà le tradizioni giuridiche degli Stati membri ed eviterà gli abusi dell’esperienza statunitense in tema di class action.

 

Italia: la disciplina dell’azione di classe.
A cura di Pierfrancesco Bartolomucci - Ricercatore di Istituzioni di Diritto Privato Università degli Studi di Napoli Parthenope.

Come cambia la nuova class action, l’estensione dei diritti collettivi da tutela dai diritti identici a tutela dei diritti omogenei?
Premessa
La disciplina dell’azione di classe in Italia ha avuto, sin dal suo primo esordio, vita difficile: la sua originaria versione non è mai stata resa operativa e, nelle more, è stata modificata da un nuovo testo, molto complesso e molto criticato.
Che si sia trattato di un testo complesso è fuori di dubbio; tuttavia, la sensazione che si può trarre – in prima analisi – è che tale complessità risponda non solo (o, comunque, non esclusivamente) all’adozione di una più o meno condivisibile tecnica legislativa, ma anche (e, forse, soprattutto) ad una precisa intenzione: quella di rendere l’azione risarcitoria applicabile ad un numero di casi estremamente ridotto.
La conferma di questa impressione viene proprio dalla lettura delle ultime modifiche apportate al testo dell’art. 140-bis del Codice del consumo (modifiche, queste, pure segnate da non poche difficoltà).
In via preliminare, corre l’obbligo di sottolineare che questa modifica è stata inserita in un testo di legge finalizzato a favorire la liberalizzazione di diversi settori dell’economia italiana, per rendere il mercato nazionale sempre più concorrenziale.
La collocazione sistematica, quindi, dice qualcosa in più e fornisce una chiave di lettura ulteriore: il mercato è reso più concorrenziale anche attraverso l’introduzione di strumenti (come quelli risarcitori collettivi) che consentono di incentivare prassi commerciali e contrattuali sempre più corrette e leali, da parte degli operatori economici, non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche nei confronti dei consumatori.
Questi ultimi, in particolare, hanno a disposizione uno strumento che – per la sua natura e per i suoi meccanismi di funzionamento – consente, in via diretta, di poter garantire il risarcimento dei danni subiti e la restituzione delle somme indebitamente percepite dall’impresa, mediante la trattazione unitaria della causa, potendo così reagire in maniera efficace contro la commissione di illeciti plurioffensivi; in via indiretta, di dissuadere gli operatori economici, che intendono realizzare economie di scala e conquistare spazi di mercato mediante modalità scorrette, dall’adozione di strumenti che si rivelino dannosi nei confronti degli utenti.
Evidentemente questo obiettivo era già chiaro al legislatore sin dalla prima versione dell’art. 140-bis cod. cons.; tuttavia la disciplina adottata non è stata coerente con gli obiettivi dichiarati, neppure in occasione della riforma della norma, che nei suoi 3 anni di vita ha prodotto risultati piuttosto modesti. In Italia, infatti sono state presentate solo 18 azioni di classe, di cui solo due hanno superato il vaglio di ammissibilità, per poi essere state entrambe rigettate nel merito.
Di tutto questo pare che il legislatore del 2012 abbia voluto tener conto, apportando alcune modifiche che hanno inciso su uno dei punti più controversi, che sia la dottrina che gli operatori del settore hanno da sempre indicato come il principale ostacolo ad una effettiva diffusione dello strumento: l’identità dei diritti tutelabili attraverso l’azione di classe.
In maniera molto significativa, infatti, l’art. 6 del d. l. 1/2010, convertito in legge 27/2012 è rubricato “Norme per rendere  efficace  l’azione  di  classe”. È chiaro che la precedente disciplina è apparsa, quindi, inefficace.

L’iter normativo delle modifiche alla disciplina dell’azione di classe
Uno dei provvedimenti più significativi adottati dal Governo in quest’ultimo anno è stato il decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”.
Detto decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio 2012 (suppl. ord.  n. 18).
All’art. 6, il Governo aveva disposto una serie di modifiche all’art. 140-bis cod. cons., le quali sostituivano i riferimenti di questa norma ai “diritti identici” (cfr. comma 2, lett. a), b), c); comma 6, II periodo) con l’espressione “diritti del tutto omogenei”.
Secondo le norme generali, lo stesso decreto è stato convertito con la legge 24 marzo 2012, n. 27, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 71 del 24 marzo 2012 (suppl. ord. n. 53).
In sede di conversione, l’art. 6 del decreto legge è stato sostituito con un nuovo testo che ha apportato modifiche ulteriori rispetto a quelle apportate dal decreto legge.
Infatti si stabilisce che le espressioni con cui si faceva riferimento ai “diritti identici” siano sostituite dall’espressione “diritti omogenei”.
Dunque, è scomparsa la locuzione “del tutto omogenei”, così come quella della “evidente omogeneità” a fronte della quale è stata inserito il riferimento alla “omogeneità” tout court.
Va inoltre precisato che la stessa norma ha apportato anche altre modifiche al testo dell’art. 140-bis cod. cons. quali: la tutelabilità, accanto ai diritti omogenei,  degli interessi collettivi dei consumatori (comma 1); l’oggetto dell’azione, relativo all’accertamento  della responsabilità e alla condanna  al  risarcimento  del  danno  e  alle restituzioni in favore degli utenti consumatori (comma 2); alla possibilità che l’adesione da parte dei singoli consumatori avvenga anche per fax o per posta elettronica certificata (comma 3); alla possibilità di addivenire ad un accordo circa la liquidazione delle somme a titolo di risarcimento, successivamente alla sentenza con cui i giudice stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme (comma 12).

Il passaggio dalla identità alla (mera) omogeneità dei diritti
Si è già ripetuto più volte che uno dei principali ostacoli alla piena affermazione dell’azione di classe è sempre stato considerato il riferimento che l’art. 140-bis cod. cons. faceva alla “identità dei diritti”.
Il comma 2, infatti, chiaramente precisava che “L’azione tutela: i diritti contrattuali di cui una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile; b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali”.
Ancora, il comma 6, che disciplina il c.d. “filtro” di ammissibilità, e cioè le verifiche preliminari che il giudice deve compiere per ammettere l’esperibilità di un’azione di classe, disponeva che la domanda fosse dichiarata inammissibile, tra le altre cause, “ quando il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2…”.
È evidente, dunque, che il chiaro riferimento alla identità dei diritti costituisce il cuore dell’intera disciplina, poiché ne delimita l’ambito di applicazione.
Ma cosa doveva intendersi per diritti identici? E perché tale identità dei diritti ha rappresentato un forte ostacolo all’efficacia dell’azione di classe?
L’identità dei diritti poteva essere riferita esclusivamente al titolo da cui essi nascevano (medesimo fatto dannoso o medesima pratica commerciale o contrattuale nei confronti di tanti consumatori)? Poteva riferirsi solo alla stessa tipologia di danno prodotto, (indipendentemente dai requisiti delle singole fattispecie relative ai vari appartenenti alla classe)? Oppure, al contrario, tale identità doveva riferirsi a tutti gli elementi costitutivi della fattispecie?
Gli Autori hanno sostenuto ora l’una ora l’altra ipotesi, proprio nel tentativo di dare a questo riferimento una lettura “elastica” che consentisse di aprire l’azione di classe ad un numero maggiore di situazioni; tuttavia, a leggere la norma nella sua interezza, e a scorrere le poche pronunce giurisprudenziali in merito, pare che si debba ritenere che i diritti potessero essere qualificati come identici qualora fossero integralmente coincidenti in tutti i loro elementi costitutivi, sia con riferimento all’an che al quantum del risarcimento, potendosi differenziare solo per il fatto che inerissero a soggetti differenti
Ecco allora che si comprende il motivo per il quale, considerata in questo modo l’identità dei diritti, si è di fatto ristretto in maniera significativa l’esperibilità dell’azione di classe.
Da un lato, infatti, il giudice era chiamato a verificare la sussistenza dell’identità dei diritti al fine di dichiarare ammissibile l’azione, con la conseguenza che tale verifica doveva fondarsi sull’accertamento dell’esistenza delle medesime situazioni di fatto e di diritto (le circostanze di fatto, il tipo di danno subìto, il nesso causale tra comportamenti e danno, la lesione dell’interesse tutelato). Se, infatti, il presupposto dell’azione era che tutti gli elementi costituitivi dei diritti individuali fatti valere dalla classe avrebbero dovuto essere pienamente ed integralmente corrispondenti, solo al ricorrere di tale identità il legislatore riconosceva l’interesse ad una trattazione unitaria della causa, in ragione della quale si chiedeva una tutela piena ed effettiva.
Dall’altro lato, l’identità dei diritti costituiva anche un elemento utile per la qualificazione della sentenza con cui veniva definito il giudizio.
Infatti, in ragione della rilevata identità dei diritti fatti valere, la decisione che chiudeva il giudizio non poteva che essere una sentenza di condanna specifica: all’esito del giudizio, il giudice – accertata la responsabilità dell’impresa, valutata l’identità dei diritti fatti valere in tutti i suoi elementi costitutivi, compreso il quantum debeatur – avrebbe dovuto emettere una sentenza di condanna con la quale liquidare le relative somme dovute in via equitativa per tutti gli aderenti o stabilire i criteri omogenei di calcolo per la loro liquidazione.
In altri termini, la sentenza del giudice non avrebbe mai potuto essere di mero accertamento della responsabilità, né tanto meno di condanna generica (poiché in entrambi i casi si sarebbe dovuto presupporre o un interesse collettivo al mero accertamento dell’illecito ovvero una parziale difformità/disomogeneità dei diritti fatti valere).
Alla luce di tale interpretazione dell’espressione “identità dei diritti” e delle sue ricadute sul piano processuale, è evidente che l’ambito di applicazione della class action era fortemente ridotta.
La dimostrazione che questa lettura fosse quella da privilegiare, è data proprio dal fatto che il legislatore – consapevole di ciò – ha inteso modificare il testo dell’art. 140-bis cod. cons. proprio nel suo aspetto nevralgico, sostituendo il riferimento alla identità con quello alla omogeneità dei diritti.
Con l’espressione “diritti omogenei”, si intende infatti quella serie di situazioni giuridiche soggettive caratterizzate dalla comunanza della maggior parte degli elementi costituitivi e non di tutti; è proprio la comunanza di detti elementi, e non più la loro integrale identità, a fondare l’interesse della classe ad una trattazione congiunta della causa, che poi potrà eventualmente essere proseguita in via individuale per il necessario completamento.
Tuttavia, seppure appare piuttosto intuiva la nozione di omogeneità ed il conseguente allargamento dell’ambito applicativo della class action, qualche riflessione in più va fatta, quantomeno con riferimento alle conseguenze processuali.
Al riguardo va richiamata espressamente una delle modifiche apportate di recente al comma 2, il cui incipit prevede che “L’azione   di   classe   ha   per   oggetto   l’accertamento   della responsabilità e la  condanna  al  risarcimento  del  danno  e  alle restituzioni in favore degli utenti consumatori”.
Questa chiara formulazione fa ritenere che il legislatore abbia inteso che la sentenza che definisce il giudizio sia una sentenza di condanna, in ragione della quale l’accertamento della responsabilità del professionista costituisce un presupposto necessario: il giudice, accertata la responsabilità, rilevati la prevalenza degli elementi comuni ai diritti individuali fatti valere dalla classe (rispetto agli elementi differenti), condanna.
Ma di che condanna si parla? Il comma 12 dell’art. 140-bis. cod. cons. in questa parte non è stato modificato; quindi esso stabilisce che il giudice “pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme”.
Non pare che possa darsi una risposta univoca a tale domanda, perché bisognerà di volta in volta stabilire il grado di omogeneità dei diritti fatti valere. Quindi l’oggetto della sentenza sarà variabile: se l’omogeneità dei diritti fatti valere sarà totale, il giudice accertata tale omogeneità, pronuncerà una condanna specifica con cui liquiderà le somme da corrispondere in via equitativa.
Al contrario, laddove le questioni comuni che caratterizzano i diritti omogenei della classe non consentano di liquidare le somme dovute, il giudice pronuncerà una sentenza di condanna generica, stabilendo i criteri omogenei di calcolo per la relativa liquidazione.
In merito a ciò, peraltro, non va dimenticato che le recenti modifiche hanno apportato l’aggiunta di un ulteriore capoverso al comma 12, in base al quale – se il giudice si limita a stabilire i criteri omogenei di calcolo per la liquidazione delle somme dovute – “assegna alle parti un termine,  non superiore a novanta  giorni,  per  addivenire  ad  un  accordo  sulla liquidazione   del   danno.   Il   processo   verbale   dell'accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice, costituisce titolo esecutivo. Scaduto il termine  senza  che  l’accordo  sia  stato  raggiunto,  il giudice, su istanza di almeno  una  delle  parti,  liquida  le  somme dovute ai singoli aderenti”.
La formulazione della norma pone una nuova questione: v’è da chiedersi, infatti, come possa il giudice (laddove le parti non abbiano trovato un accordo) provvedere alla liquidazione delle somme se i diritti non sono identici e, quindi, se gli importi dei relativi risarcimenti non sono corrispondenti per tutti i componenti della classe.

Gli interessi collettivi: cenni
Con la stessa finalità di ampliare il ricorso all’azione di classe, il comma 1 dell’art. 140-bis cod cons. è stato oggetto di un’ulteriore modifica, nella parte in cui dispone che, accanto ai diritti individuali omogenei, sono tutelabili anche gli interessi collettivi dei consumatori.
Non potendo affrontare il tema della natura e della qualificazione degli stessi, né della loro rilevanza processuale, il dato normativo appare chiaro nella sua ratio.
Del resto, già la prima formulazione dell’art. 140-bis faceva riferimento ad una azione a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti, che avrebbero potuto richiedere l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e alle restituzioni.
Tuttavia v’è da chiedersi come debba essere interpretato tale nuovo inserimento all’interno di una disciplina dell’azione di classe che è molto diversa dalla sua originaria versione.
Probabilmente, il riferimento agli interessi collettivi dei consumatori potrebbe far ritenere possibile l’esperimento di una azione di classe volta al mero accertamento della responsabilità dell’impresa in conseguenza di un illecito plurioffensivo da questa commesso.
In altri termini, l’interesse collettivo dovrebbe corrispondere a far accertare giudizialmente gli elementi costituitivi della responsabilità, la cui trattazione in comune risulta conforme alla esigenza della classe, rispetto ai quali nascono i rispettivi diritti al risarcimento del danno.

 

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