Molti brand hanno scelto di rivolgere maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale, ma nella maggior parte dei casi si tratta di approcci timidi ad una questione che richiede cambiamenti radicali. Dopo un 2023 flagellato dagli eventi legati alla crisi climatica, il 2024 deve essere affrontato in un’ottica più risolutiva, o il sistema moda rischia di collassare (assieme al pianeta).


Fibre riciclate, emissioni ridotte, riuso di pezzi d’archivio, migliore impiego delle risorse energetiche, packaging biodegradibili: negli ultimi anni il mondo della moda ha sfoggiato la sua anima ecologista, ma i passi condotti sino ad ora in direzione green non bastano più. Troppo timidi, troppo concentrati sul 'qui e ora', sull’aspetto vendibile di certe istanze: se si vuole salvaguardare non solo il pianeta, ma l’intera catena di produzione fashion, occorre fare molto di più, e abbracciare il cambiamento in modo efficace, radicale, con una prospettiva di lungo termine. Secondo il report annuale di Business of Fashion – The State of Fashion 2024, l’anno appena iniziato sarà decisivo per il mondo del tessile e dell'abbigliamento.

Tutte le industrie sono attualmente toccate dalla crisi climatica, ma il sistema moda è particolarmente vulnerabile perché la sua catena di produzione è estremamente articolata. Il tema della sostenibilità nel fashion è complesso, e di conseguenza sono complesse le pratiche da mettere in atto: dall’origine delle fibre alla distribuzione nei negozi, si devono incastrare tra loro decine e decine di ingranaggi, ognuno dei quali si colloca in una realtà geografica specifica. Si tratta di una vera e propria matassa geopolitica da districare.

Le parti più scricchiolanti del sistema moda
Il 2023 sarà ricordato per gli eventi estremi legati al clima. È stato l’anno più caldo mai registrato. Le piogge torrenziali e gli allagamenti, gli incendi e la siccità, hanno interessato tantissimi paesi, spesso proprio quelli nei quali si producono le fibre e dove si trova la manodopera del tessile. Dal punto di vista economico, gli eventi estremi hanno causato ingenti perdite a moltissimi settori (secondo il World Economic Forum il costo dei disastri ambientali si traduce in perdite aumentate del 77% negli ultimi cinquant’anni), quello della moda in primis. Il settore fashion ha la sua bella fetta di responsabilità nella crisi climatica: si stima che circa l’8% delle emissioni globali provenga proprio dalla manifattura dei capi di abbigliamento, e ad esse vanno sommate l'ingente produzione di rifiuti e l’inquinamento dei corsi d’acqua.

La catena produttiva della moda ha diversi anelli deboli legati al clima. Particolarmente a rischio è la coltivazione delle materie prime: inondazioni e siccità, per esempio, stanno mettendo in ginocchio la produzione del cotone, una delle fibre più diffuse al mondo, la cui coltura è fortemente legata alle risorse idriche. Come riporta l’indagine di BOF, l’India lo scorso anno è stata colpita da piogge torrenziali (ben più importanti dei comuni monsoni annuali) seguite da invasioni di insetti, che hanno flagellato la produzione di questa fibra. Tanto che il paese, considerato il secondo esportatore al mondo di cotone, ha dovuto importarne. Al contrario, in Texas è stata la forte siccità a danneggiare gravemente i produttori di cotone, che si sono visti obbligati ad abbandonare intere piantagioni.

Le piogge torrenziali sono state inoltre un enorme problema per le manifatture dei paesi asiatici che sono letteralmente alla base dell’industria moda, come il Bangladesh o il Vietnam: nel 2023 i frequenti allagamenti hanno costretto molte sedi a chiudere, registrando danni ingenti. Un trend destinato a peggiorare: si stima che entro il 2030 il 55% delle manifatture di Ho Chi Min City si troverà in un territorio esposto all’innalzamento dei mari. Anche le altissime temperature registrate lo scorso anno hanno provocato danni alla produzione, e soprattutto alla salute dei lavoratori: gli operai dei centri tessili del Bangladesh (attualmente nel paese sono in corso numerose proteste che chiedono migliori condizioni lavorative e salari adeguati) e della Cambogia riportano episodi di svenimenti, disidratazione, fatica estrema dovuti al caldo.

Infine, anche dal punto di vista logistico i problemi non sono stati pochi: come evidenzia il report di BOF, la maggior parte delle merci legate all’abbigliamento viene distribuita tramite navi cargo, ma gli eventi climatici hanno reso inagibili o difficilmente percorribili molte delle rotte classiche. È accaduto sulla rotta del Reno, la più importante d’Europa dal punto di vista commerciale, che ha registrato la scorsa estate il livello di acque più basso degli ultimi 500 anni imponendo alle compagnie mercantili di trasportare meno merci per ogni viaggio. Lo stesso è accaduto con il Canale di Panama. Mentre in Cina le ondazioni hanno creato il problema inverso: gli allagamenti hanno impedito la navigazione sulle rotte classiche imponendo alle compagnie di trovare alternative dispendiose e meno efficaci.

La sfida del 2024
Oggi la sfida delle aziende è dunque quella di ridurre i rischi legati agli eventi climatici, e per farlo non possono limitarsi a proporre packaging biodegradabili: il cambiamento deve essere strutturale. Secondo l’analisi di BOF, andando avanti di questo passo entro il 2030 i marchi rischiano di registrare fino a 65 miliardi di dollari di perdite, e potrebbero trovarsi costretti ad eliminare un milione di posti di lavoro nei paesi che sono letteralmente alla base dell’industria. Occorre mettere in atto strategie efficaci che tocchino tutti gli ingranaggi del sistema, valutando ogni potenziale scelta anche nell’ottica del rischio climatico. Lo scenario deve includere, sostiene la ricerca, la possibilità che vi siano allagamenti, siccità, danni alle infrastrutture, in ogni settore della produzione ma specialmente nei Paesi più a rischio di calamità naturali.

Ciò implica un vero e proprio nuovo modo di pensare, che vada dal minore sfruttamento delle risorse naturali alla riduzione drastica delle emissioni, ma includa anche luoghi di lavoro progettati per resistere agli eventi estremi. Inoltre, occorre ripensare le politiche sul lavoro: lo sfruttamento della manodopera, già al centro di numerose proteste la cui eco risuona sempre molto debole alle latitudini nostrane, non può più esistere, e i turni di lavoro devono per forza tenere conto del clima estremo. “Le aziende devono investire nell’innovazione in tutta la catena produttiva, per ridurre l’impatto della moda sul pianeta”, sottolinea la ricerca. “Dai nuovi materiali come le fibre coltivate in laboratorio, ad un uso più etico delle risorse, il riuso e il riciclo dei prodotti, alla promozione di una coltura del consumo che produca meno rifiuti”. Infine, la vera, nuova sfida delle aziende è allearsi tra loro, collaborare, allinearsi per una produzione più sostenibile globalmente e sul lungo termine.

Insomma, per i brand di moda non è più tempo di tergiversare. Anche perché, volenti o nolenti, qualche cambiamento dovranno farlo per legge: sono infatti in arrivo nuovi regolamenti dell’Unione Europea mirati a ridurre l’impatto ambientale del mondo fashion, ai quali le aziende dovranno attenersi. Sotto il cappello di Strategia UE per i prodotti tessili sostenibili e circolari, ricadono una serie di nuove norme, alcune già varate, altre in fase di discussione. In generale, gli obbiettivi che si pongono (e che verranno imposti alle aziende) riguardano la gestione di rifiuti, la trasparenza e la tracciabilità, l’obbligo di prevedere, già in fase di progettazione, la durevolezza, la riciclabilità e il riuso dei prodotti. Particolare attenzione è dedicata al greewashing: la EU Green Claims Directive, richiede che ogni dichiarazione relativa al mondo ‘green’ sia supportata da evidenze e possa essere verificata. La Francia al momento è il primo paese ad aver già imposto alle proprie aziende di specificare sull’etichetta dei capi il loro impatto in termini di emissioni.

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