Tre strade per fermare la violenza sulle donne
di Barbara Stefanelli

«Pandemia ombra»: è stata chiamata così. Eppure vederla alla luce è facilissimo: da marzo a maggio-giugno 2020, mentre si appiattisce la curva della mobilità perché in Italia le persone sono in lockdown, a impennarsi è la curva delle minacce e delle violenze sulle donne.

Le telefonate al numero verde 1522 aumentano del 120 per cento.

Che cosa sta succedendo dietro le porte sbarrate al virus? Che gli uomini — mariti, compagni, a volte fratelli — riversano il disorientamento e la furia dell’insicurezza economica, sociale e psicologica innescata dal confinamento sulle loro mogli, compagne, sorelle. Di ogni età, dalle ragazze alle anziane delle quali spesso ci dimentichiamo. Nel 96% delle richieste di aiuto, chi subisce attacchi è una donna. Nel 77% siamo tra le mura di casa. È per questo che, in tutte le lingue e culture, si parla di «violenza domestica». Da domus che, secondo il vocabolario Treccani, rimanda alla sede della famiglia, al focolare per antonomasia e persino ai Lari protettori dell’abitazione romana.

Ogni 25 novembre i dati piovono come pugni sulla convinzione, abbastanza diffusa, che viviamo in mondi dove l’equità è stata ormai raggiunta. E se non proprio raggiunta quasi ci siamo, manca poco: sicuramente le nostre bambine, che a scuola vanno meglio dei loro coetanei ed escono fiduciose dagli anni della formazione, loro no, non subiranno rallentamenti né distorsioni o ricatti...

La verità è che questo 2020 — ancora doloroso, sconvolgente — ha fatto saltare equilibri che erano precari anche in tempi pre contagio. Precari perché asimmetrici alla radice, secondo un modello millenario che riconosce ai patriarchi privilegi acquisiti e sconfinati spazi d’azione. Sotto la copertura di leggi che pure sono profondamente migliorate, sopra le buone intenzioni e le promesse ripetute a ogni nuovo inizio, in mezzo alle foto sorridenti postate sui social che guardiamo con sgomento dopo un femminicidio: in ogni strato attraversato dalle nostre esistenze collettive persiste un dissesto, una faglia, che fa indietreggiare e a volte precipitare la libertà delle donne.

Accanto al picco delle violenze, c’è un altro dato che oggi ci chiama alla controinsorgenza rispetto alle eredità nascoste della pandemia: la perdita di occupazione femminile, che è scesa al 48 per cento. Dopo una lentissima faticosa scalata oltre la soglia del 50, oggi in Italia — di nuovo — meno di una donna su due ha un contratto di lavoro retribuito, meno di una su tre in alcune regioni. Il pericolo di un arretramento della nostra civiltà — non di una parte, di tutta — è davanti a noi. Quindi è a noi che tocca metterci subito di traverso e spingere in direzione opposta. Sappiamo benissimo quello che dobbiamo fare.

Primo: favorire l’indipendenza economica delle donne perché è la base di scelte consapevoli e autonome. La decontribuzione al 100 per cento per le aziende che assumono al femminile, prevista tra le misure annunciate dal governo, è un passo fondamentale, irrinunciabile. La leva fiscale va usata per favorire l’inclusione lavorativa delle donne e delle donne giovani in particolare. Le obiezioni di quanti invocano i principi liberali sono invecchiate alla prova dei fatti: illiberale è un sistema che non permette a tutti e tutte di correre sullo stesso piano, senza dislivelli in partenza e buche lungo il percorso.

Secondo: rimettere mano alle strutture sociali, a quella costellazione di sostegni territoriali alle famiglie (soprattutto in presenza di bambini) che i lockdown hanno rivelato fragili se non assenti. Chi raccoglie le storie di violenza domestica spiega come il laccio principale, che trattiene le donne rispetto al desiderio e alla necessità di andare via da uomini abusanti, sia costituito dalla paura di ritrovarsi sole e di esporre ad altri danni i figli minorenni. Per questo i finanziamenti alla rete delle associazioni che le accolgono non possono subire tagli né incagliarsi tra burocrazie locali. Nonostante la crisi. Anzi, ancora di più in presenza di crisi economica.

Terzo: dobbiamo combattere insieme contro i pregiudizi inconsapevoli. Quelli che continuano a muoversi nell’oscurità del corpo sociale e dei nostri corpi individuali, quelli che influenzano le nostre aspettative di genere e vanno poi a modellare le abitudini, le (cattive) pratiche, le istituzioni. Sono più potenti degli stereotipi dei quali abbiamo almeno imparato a dibattere.

Uno per tutti, scelto in questa giornata durante la quale sentirete ripetere in continuazione la parola “vittime” riferita alle donne, tanto che finirà per sembrarvi una frase fatta, uno scivolo verso un affollato luogo comune. Quello che la forza sia una specialità maschile, una fortuna predisposta dalla Natura. Il nodo qui è che abbiamo sempre concepito la forza in termini di muscoli. Ma esistono altre capacità, direbbe Alessandra Chiricosta autrice di Un altro genere di forza, che contribuiscono all’efficacia: velocità, resistenza, prontezza, agilità, presenza mentale, strategia… Eppure ci abbandoniamo all’idea che la forza si risolva nel binomio muscolarità/mascolinità, passaggio critico nel sentire comune che sospinge la femminilità dentro un perimetro di debolezza. Il sesso debole.

Passando dal mito della virilità ai nostri appartamenti, proviamo ora a pensare che possiamo essere tutte e tutti forti a modo nostro, mai violenti, che non esistono status naturali di superiorità, non esistono diritti al controllo e doveri di sottomissione. Cambiamo il racconto di quello che siamo. Liberiamo i nostri corpi, le nostre teste, i libri, le favole, le materie di studio, gli sport per maschi o per femmine. Tempo di rigenerazione, di ripartenza.

https://27esimaora.corriere.it/20_novembre_24/forza-donne-contro-violenza-genere-1699140c-2e83-11eb-999d-d8605208feb7.shtml

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