Il filosofo di Internet: "L’autoregolamentazione, come strategia principale per risolvere i problemi posti dal digitale, si è conclusa. Va ripensata in termini di etica soft"

Qualche giorno fa su Facebook qualcosa è cambiato. I più attenti avranno notato che andando a condividere un articolo di un qualsiasi giornale online, come Huffpost, La Repubblica o La Stampa, questo compare senza né immagine né sommario. Il motivo lo spiega bene Claudio Giua su Huffpost. Sono entrate in vigore le norme che recepiscono la direttiva comunitaria 790 del 2019 e Meta (come si chiama ora Facebook), senza darne comunicazione agli utenti e solo informando all’ultimo minuto gli editori, ha cambiato le modalità di pubblicazione dei “link di terze parti”. Poiché nella direttiva si parla anche di diritto d’autore, Facebook o Google dovrebbero corrispondere un compenso agli editori. Ma, per ora, non sembrano intenzionati a scendere a compromessi. Staremo a vedere come evolverà la questione.

La vicenda è però solo l’ultima di una lunga serie. Basti pensare alla multa di 1,1 miliardi di euro per abuso di posizione dominante di Amazon che l’Antitrust nelle scorse settimane. A quanto è accaduto sette anni fa in Spagna, dove Google piuttosto che retribuire i contenuti editoriali nel servizio News, come stabilito dalla legge nazionale, preferì chiuderlo. I giornali fecero marcia indietro. All’Australia, dove Facebook per alcuni giorni ha vietato la condivisione di news e link agli utenti. A come Facebook e Twitter abbiano deciso di eliminare l’account di Donald Trump. Tutto questo ci racconta quanto le Big Tech, che fino ad oggi quasi in tutto il mondo hanno goduto del beneficio dell’autoregolamentazione, non siano propense ad accettare regole e leggi imposte dagli Stati centrali.

Luciano Floridi è una delle voci più autorevoli della Filosofia contemporanea, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, e di Sociologia della Cultura e della Comunicazione all’Università di Bologna, dove dirige il Center for Digital Ethics. Ha pubblicato uno studio per l’Università di Oxford in cui scrive che “L’era dell’autoregolamentazione è finita”. Ci ha spiegato: “Dopo la commercializzazione del Web, il tentativo di autoregolamentarsi ha fallito”.

Professor Floridi, che ne pensa della vicenda che vede coinvolta Meta e gli editori italiani?

La vicenda italiana attuale è in corso di svolgimento ed è difficile anticipare come finirà. Se il precedente della Spagna è indicativo, potrebbero esserci cattive notizie per i giornali. Ma più in generale, credo che la questione interessante sia capire quali nuovi modelli di condivisione della pubblicità possano essere applicabili in modo da conciliare il valore del traffico generato dalle piattaforme online verso i giornali con il valore dei contenuti forni da questi”.

Come è nata l’autoregolamentazione?

L’amministrazione Clinton negli anni Novanta ha scelto di regolamentare internet soltanto in un secondo momento. Si è detto iniziamo a giocare poi decidiamo le regole. Solo 30 anni dopo ci siamo accorti che chi fa le regole fa il gioco. La nostra vita trascorre Onlife (né online né offline), qui tutto è sempre connesso, all’interno di uno spazio digitale e analogico che si può chiamare Infosfera. Per questo Facebook, Google, Apple, Amazon, Microsoft, hanno un impatto profondissimo. Se la nostra vita Onlife si basa sulla circolazione delle informazioni chi controlla le informazioni ha le chiavi di tutto. Chi controlla le domande dà forma alla risposte, chi dà forma alle risposte controlla la realtà, per parafrasare “1984” di Orwell. Queste grandi potenze stanno determinando il modo in cui noi percepiamo il mondo e noi stessi, e come possiamo interagire con esso e tra di noi”.

Nello studio che ha pubblicato per l’Università di Oxford parla di autoregolamentazione come di un’occasione persa.

Se dovessi scegliere un anno per segnare l’inizio del Web commerciale, suggerirei il 2004, quando fu lanciato Facebook, e Google tenne la sua IPO (“initial public offering”, offerta pubblica iniziale per quotare un’azienda sul mercato). Prima del 2004 c’era entusiasmo e tantissima autoregolamentazione. Poi però nessuno ha mai detto: ’Attenzione, ora che il web è commerciale servono le regole’. E così ha continuato ad esserci”.

Cosa è successo?

È come se ci fosse stato un cattivo allineamento di varie fasi. Quando è nato Internet, si è partiti subito con l’autoregolamentazione (vedi il grafico sotto). Quando arrivò anche la commercializzazione del Web, questa portò nella vita di tutti i giorni problemi etici già presenti in contesti specialistici. E le due rette, Internet e autoregolamentazione, hanno iniziato a legarsi in una sorta di cattiva intesa. Iniziò a montare la pressione per migliorare le strategie e le politiche aziendali, si cercava un quadro normativo che fosse più adeguato alle esigenze del mercato. Ma l’autoregolamentazione continuò ad apparire come una strategia utile per far fronte alla crisi etica. Circolava l’idea che l’industria digitale potesse formulare i propri codici e standard etici, e richiedere e monitorare l’adesione ad essi, senza bisogno di controlli o imposizioni esterne. Non era una cattiva idea. Io stesso l’ho sostenuta spesso”.

Quali erano i vantaggi di sostenere l’autoregolamentazione?

In teoria, attraverso l’autoregolamentazione, l’etica soft, e la soft law, le aziende avrebbero potuto adottare modelli di comportamento migliori, più adeguati eticamente alle esigenze commerciali, sociali e ambientali, in modo più rapido, agile ed efficiente senza dover aspettare una nuova legislazione o accordi internazionali. Se sviluppata e applicata correttamente, l’autoregolamentazione può prevenire disastri, cogliere più opportunità, e preparare l’industria a adeguarsi a futuri quadri giuridici”.

Ma da opportunità si è trasformata in occasione mancata...

È iniziato un cortocircuito e il momento della legislazione non è mai arrivato. Solo l’Europa ha avvertito l’esigenza di intervenire. Basti pensare che l’Oversight Board di Facebook, che dovrebbe occuparsi di autoregolamentazione ed etica, è stato istituito nel 2020. Molti anni dopo l’inizio del web commerciale e lo scandalo Cambridge Analytica. Quando ormai la legislazione aveva già raggiunto l’industria digitale: il GDPR, il Regolamento europeo sulla protezione dei Dati personali, è del 2016”.

In altre parole l’Europa è avanti rispetto a Stati Uniti e Cina.

Sì. Dopo il GDPR, è arrivato il momento del Digital Service Act e del Digital Market Act. In questo modo l’Europa ha di fatto rivendicato una leadership nell’adozione di leggi che limitino fenomeni come l’incitamento all’odio e attacchi razzisti online, istigazione alla violenza, fake news e altri contenuti illegali. Ma quello che va letto con attenzione è l’impostazione generale che riprende dal regolamento GDPR un punto fondamentale: sgancia la legislazione dalla localizzazione. In altre parole se l’utente è europeo si applica la legislazione europea. Questo è 21esimo secolo: ovunque tu sia, se i tuoi dati sono europei si applicano le regole europee”.

Poi è arrivato anche l’AI Act.

È stato necessario. Quando l’industria ha reagito alle sfide etiche poste dall’Intelligenza artificiale creando centinaia di codici, linee guida, manifesti e dichiarazioni, la vacuità dell’autoregolamentazione è apparsa imbarazzante. Nell’Ai act c’è scritto che l’Intelligenza artificiale deve essere attentamene controllata quando è una tecnologia ad alto rischio. Ci sono molti benefici nel suo utilizzo, ma può aumentare anche la sorveglianza, per esempio. Perciò le regole sono fondamentali. Con la legislazione europea siamo arrivati abbastanza avanti”.

Nello studio lei indica un’altra data. Parla del 2014 come l’anno in cui l’era dell’autoregolamentazione raggiunge la maggiore età. Perché?

Nel 2014 Google istituisce l’Advisory Council (di cui sono stato membro) per affrontare le conseguenze della sentenza sul “diritto all’oblio” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Fu la prima di molte altre simili iniziative. Ma, nel complesso, l’era dell’autoregolamentazione fu poi deludente. In anni successivi, lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica nel 2018 e l’Advanced Technology External Advisory Council, palesemente mal concepito e di brevissima durata, istituito da Google sull’etica dell’AI nel 2019 (di cui sono stato membro), mostrarono quanto fosse difficile e in definitiva fallimentare l’autoregolamentazione”.

Quindi le Big tech hanno sempre preferito decidere le regole del gioco da sole?

Facebook ha sempre insistito sull’opportunità di non legiferare ma operare in modo “soft”. Usando norme senza un’efficacia vincolante. I codici di condotta, per esempio, avrebbero garantito la presenza sulla piattaforma solo di persone con età superiore ai 13 anni. Resto convinto che, in quegli anni, fosse realistico e ragionevole credere che l’autoregolamentazione potesse favorire un dialogo eticamente costruttivo e fruttuoso tra industria digitale e società. Valeva la pena tentare la strada dell’autoregolamentazione, almeno in un senso complementare rispetto alla legislazione in evoluzione. Purtroppo, non è andata così”.

Zuckerberg ha lanciato Metaverso, e ha cambiato il nome di Facebook in Meta. Ha aggiunto: “Vogliamo essere ricordati non come un social network, ma come la società che ha costruito il Metaverso”. Anche questo è un tentativo di distogliere l’attenzione dai problemi della sua azienda e allontanare la necessità di avere delle leggi?

Metaverso rischia di essere la Waterloo di Facebook. È il figlio di due grandi fallimenti: i Google Glass e Second Life. Eppure da quello che vediamo, sembra che Zuckerberg preferisca andare avanti su questa strada pur di distogliere l’attenzione degli analisti dai Facebook Papers e trovare nuove aree dove non esiste ancora la legislazione necessaria”.

Ancora un segno di quanto non funzioni l’autoregolamentazione

L’era dell’autoregolamentazione, come strategia principale per risolvere i problemi etici posti dal digitale, si è conclusa. Lascia come eredità un buon lavoro di dissodamento, in termini di analisi dei problemi e delle loro soluzioni, di consapevolezza culturale e sociale, di sensibilità etica, e anche di alcuni contributi positivi alla legislazione. Ad esempio, l’High-Level Expert Group on Artificial Intelligence (di cui sono stato membro) istituito dalla Commissione europea, ha visto la partecipazione di partner industriali e ha fornito il quadro etico per l’AI Act. Tuttavia, l’invito ad autoregolamentarsi, rivolto dalla società all’industria digitale, è stato ampiamente ignorato. Anche questa è stata un’opportunità storica enorme ma mancata, purtroppo molto costosa socialmente ed economicamente. Oggi l’autoregolamentazione va ripensata in termini di etica soft, cioè di un’etica che subentra dopo la conformità con la legge, la cosiddetta compliance, ovviamente quando la legge esiste ed è ben fatta. Intesa come etica soft, l’autoregolamentazione può offire un grande vantaggio competitivo, sia rispetto ad altre aziende, sia per il mantenimento e la crescita dei talenti interni”.

Adele Sarno

https://www.huffingtonpost.it/entry/luciano-floridi-autoregolamentazione-big-tech_it_61bf3108e4b0bb04a625c32f?ncid=other_whatsapp_catgqis0hqm&utm_campaign=share_whatsapp

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